“La sfida maggiore oggi, forse teorica prima ancora che politica e istituzionale, è capire se le forme assunte dalle nostre democrazie rappresentative sono adeguate ad affrontare situazioni di crisi. La domanda che ci dobbiamo porre oggi, e chiederci se la democrazia rappresentativa è in grado di affrontare pacificamente le crisi le si pongono davanti, di reggerne l’impatto”. Lo ha detto il Sindaco Enzo Lattuca intervenendo questa mattina alle celebrazioni del 79esimo anniversario della Liberazione della città di Cesena. “Di fronte alla dissoluzione delle grandi sintesi teoriche del Novecento – ha proseguito – abbiamo bisogno di istituzioni capaci di regolare i rapporti tra le nazioni in maniera pacifica. Così come abbiamo bisogno di strumenti analitici nuovi, di pensieri nuovi, adeguati al quadro che si sta delineando. Strumenti analitici che purtroppo oggi non abbiamo. Nessuno di noi li ha. Tanto che anche l’incapacità di reggere la sfida dal punto di vista dell’analisi dei processi in corso e della loro interpretazione può essere considerata un’emergenza. Forse vi chiederete il senso, oggi, di queste parole. Credo che nel giorno in cui celebriamo la liberazione della nostra città da un’occupazione militare abbiamo il dovere di ricordare che chi, o perché obbligato o per scelta, anche etica, decise allora di combattere per liberarci dal giogo del nazifascismo, voleva liberarci una volta per tutte dalla guerra. Certamente era ciò che hanno voluto i nostri padri costituenti”.
Il 20 ottobre 1944 le truppe alleate e i partigiani liberavano la città dall’occupazione nazi-fascista. Oggi, a distanza di 79 anni, Cesena celebra il ricordo della Liberazione con iniziative promosse dall’Amministrazione comunale, in collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea e ANPI Cesena, e avviate sotto il Loggiato del Municipio con la deposizione della corona di alloro sulla lapide a Cesena Medaglia d’argento al Valor militare da parte del Sindaco Enzo Lattuca.
Si riporta l’intervento integrale del Sindaco:
Il 20 ottobre 1944 le truppe alleate dell’Ottava Armata e i partigiani entravano a Cesena, segnando la fine di un lungo periodo di oscurità e di angoscia. La guerra di Liberazione fu una grande lotta di popolo, combattuta insieme alle forze armate alleate. Tantissimi – civili, militari, religiosi, forze armate e forze dell’ordine, servitori di uno Stato che si era dissolto – pagarono questa scelta con la prigionia o con la loro stessa vita. Pochi giorni fa abbiamo ospitato qui a Cesena una rappresentanza canadese per onorare la memoria del soldato Ernest Smith, che proprio 79 anni fa guidò i suoi uomini nella traversata del fiume Savio, difendendo la posizione da carri armati e fanteria finché il nemico tedesco non si ritirò. Un gesto eroico che gli vale la Croce di Vittoria, la più alta onorificenza del Commonwealth.
La libertà che riconquistarono, esercito alleato e partigiani insieme, trovò compimento nella nostra Costituzione. La libertà di cui godiamo da quasi 80 anni, la democrazia che è stata costruita, l’uguaglianza e la giustizia che la Costituzione ci prescrive di ricercare sono figlie di questa storia sofferta e di generazioni che le hanno conquistate con dolore, sacrificio, impegno. A loro prima di tutto va la nostra riconoscenza. A noi spetta il dovere di ricordare, il dovere di continuare a distinguere le ragioni patriottiche della democrazia e della libertà dal torto oppressivo della dittatura.
E forse oggi, consentitemelo, abbiamo il dovere di fare anche qualche riflessione in più. O Almeno di interrogarci. Cosa ne stiamo facendo oggi di quel “nobilissimo testamento che non può essere dimenticato” (uso la definizione che diede il comandante partigiano Arrigo Boldrini della lotta di Liberazione) che ci hanno lasciato i combattenti di allora? Conosciamo la nostra storia recente. Dopo la divisione in blocchi del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale, una divisione durata 50 anni, nel 1989 il crollo del muro di Berlino era stato salutato come l’inaugurazione di una nuova epoca nella quale abbiamo tutti creduto che fosse definitivamente archiviata la prospettiva di conflitti armati, un’epoca che segnava invece la vittoria indiscussa della democrazia come forma politica dominante in tutto il mondo, rispetto a forme residue di autocrazia.
In realtà quella svolta si sta rivelando molto più profonda e critica, soprattutto perché ha fatto emergere una sfida della quale forse non eravamo consapevoli: la sfida di riuscire a dimostrare che era possibile affidare alle democrazie rappresentative la gestione pacifica, la gestione pacifica, della molteplicità dei conflitti – sociali, politici, istituzionali – che si sono espressi dopo quel passaggio storico.
Negli anni ‘80 abbiamo raggiunto il massimo grado della minaccia nucleare, con la prospettiva di una resa dei conti fra i due gendarmi dell’ordine internazionale, Stati Uniti e Unione Sovietica, che avrebbe potuto portare alla cancellazione del genere umano. Dopo il 1989 il disarmo nucleare avrebbe potuto, e forse dovuto, consentire l’avvio di una fase di gestione pacifica delle conflittualità, invece si è lavorato per rendere nuovamente possibile la guerra convenzionale come scontro tra eserciti.
La sfida maggiore oggi, forse teorica prima ancora che politica e istituzionale, è capire se le forme assunte dalle nostre democrazie rappresentative sono adeguate ad affrontare situazioni di crisi. La domanda che ci dobbiamo porre oggi, e chiederci se la democrazia rappresentativa è in grado di affrontare pacificamente le crisi le si pongono davanti, di reggerne l’impatto. Deve esserlo, dobbiamo impegnarci tutti perché lo sia. Ma con quali strumenti?
Di fronte alla dissoluzione delle grandi sintesi teoriche del Novecento, abbiamo bisogno di istituzioni capaci di regolare i rapporti tra le nazioni in maniera pacifica. Così come abbiamo bisogno di strumenti analitici nuovi, di pensieri nuovi, adeguati al quadro che si sta delineando.
Strumenti analitici che purtroppo oggi non abbiamo. Nessuno di noi li ha. Tanto che anche l’incapacità di reggere la sfida dal punto di vista dell’analisi dei processi in corso e della loro interpretazione può essere considerata un’emergenza.
Forse vi chiederete il senso, oggi, di queste parole. Credo che nel giorno in cui celebriamo la liberazione della nostra città da un’occupazione militare abbiamo il dovere di ricordare che chi, o perché obbligato o per scelta, anche etica, decise allora di combattere per liberarci dal giogo del nazifascismo, voleva liberarci una volta per tutte dalla guerra. Certamente era ciò che hanno voluto i nostri padri costituenti.
La lotta di Liberazione preparò la strada alla nostra Costituzione, che all’articolo 11 recita: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. E allora, in questo momento in cui anche l’Europa e l’Occidente appaiono forse smarriti, nell’assenza di un pensiero critico nuovo sul presente e sul futuro delle nostre democrazie, appigliamoci e teniamoci stretta almeno la nostra Carta costituzionale, scritta da chi ha saputo davvero guardare lontano.
Una Costituzione a cui siamo arrivati con il sacrificio di centinaia di migliaia di italiani che, sempre per citare Arrigo Boldrini, “hanno combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro”. Italiani, donne e uomini, a cui oggi e sempre diremo grazie.